Poi ci sono i colori delle rocce. Quelle grigio-chiare dove le pareti sono rotte. Quelle bianche, levigate dai ghiacci dei millenni. Quelle nere e viscide, coperte dai licheni, nelle tenebrose fenditure. Le grigio-scuro, pulite, solidissime, perfette, butterate qua e là da piccoli buchi tondi, come orbite, senza neppure un sassolino negli interstizi tanto rigorosa è la verticalità della struttura (delizia massima degli arrampicatori).
Le rocce gialle, per lo più malferme e perfide, risparmiate dalla pioggia perché piegate in fuori a strapiombo o riparate da soverchianti tetti; sinistro colore giallo che per i rocciatori è sinonimo di passaggio maledetto.
Ci sono poi le rocce rosse, ancora peggio, ancora più marce ed impraticabili. E infine i mille straordinari abbellimenti: minuscole caverne, nidi di gnomi, forse, scavate negli appicchi; lugubri strisce di antichi stillicidi; cicatrici, di un candore quasi osceno, lasciate da qualche notturno crollo; pulpiti da predicatore sospesi sulle voragini; fessure che come enigmatiche iscrizioni tagliano in diagonale le pareti; macigni da ciclope in bilico che sporgono proiettando nell’abisso lunghe ombre; occhiaie nere che trasformano i pinnacoli in devastati teschi; facce di cane, monaci incappucciati, scontrose vergini, guerrieri del duecento, preti, ceree statue che sulle creste confabulano, vitrei fantasmi di calcare erosi dal vento, che si sporgono in fuori e guardano, guardano fissamente.
E da tutto questo, per chi guarda dal fondo delle valli, che colore risulta? E’ bianco? Giallo? Grigio? Madreperla? E’ color cenere? E’ riflesso d’argento? E’ il pallore dei morti? E’ l’incarnato delle rose? Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?

– Dino Buzzati, introduzione a Olimpiadi nelle Dolomiti, 1956
Imbrunire. Vista sulla Pala di San Martino dalla cima di Ball.