Scoprire l’uomo scavando dentro se stessi – questo a mio avviso è il fine di tutto – è indubbiamente la più stimolante delle avventure.

– Walter bonatti

29 agosto 2013.  Un giorno di corsa da Braies a Belluno lungo l’AltaVia 1

Tofana di Rozes.
Il caso e l’ora tarda della sera mi regalano la quiete di una cima deserta nonostante le molte persone incontrate oggi sui sentieri.
Così, senza fretta, siedo sotto alla croce di vetta e lascio vagare lo sguardo lungo l’immaginaria linea tracciata dall’Alta Via 1 delle Dolomiti tra i gruppi montuosi che chiudono l’orizzonte.
Da quassù, a 3225 metri, si può seguire buona parte di questo viaggio tra le Dolomiti che dal 1966, anno della sua divulgazione, affascina generazioni di escursionisti.

A Nord è inconfondibile la mole della Croda del Becco con le sue lisce placche inclinate.
Le cime a guardia del regno di Fanes accompagnano lo sguardo verso il Lagazuoi rievocando le suggestive leggende con cui i valligiani hanno, nel tempo, cercato di interpretare la fenomenologia della montagna.
Qui attorno, invece, le rocce parlano delle tristi contrapposizioni umane. Ovunque fortificazioni, camminamenti e gallerie ricordano che un secolo fa gli uomini sono saliti su queste montagne per farsi la guerra.
Di fronte a me uno dei luoghi più celebri delle Dolomiti. Il monte Nuvolau che porta in vetta, come il nido di un’aquila, il primo rifugio costruito tra queste montagne.
Più lontano la maestosa mole del Pelmo. Il Caregon del Padreterno, come viene anche chiamato.
John Ball, irlandese, uno dei primi a salire sulle vette dolomitiche, lo scelse nel 1857 come sua prima sfida.
Più lontano ancora la Civetta mostra la sua impressionante parete verticale che brilla nei caldi colori del tramonto ed invita a proseguire, dove lo sguardo non può più, alla scoperta di altre montagne nel lungo viaggio verso Belluno e la pianura.

Sono passato sui sentieri qui sotto, all’incirca a quest’ora, solo pochi giorni fa.
A passo di corsa.
Rincorrendo un piccolo grande sogno cullato per mesi.
Percorrere l’intera Alta Via come piace a me: correndo.
Attraversando in rapida successione i suoi gruppi montuosi, godendone gli scorci, ricordandone la storia, legandoli in una singola, articolata e densa esperienza.

Un’esperienza conclusa con successo, riuscendo in quel gioco illusorio ma stimolante di abbracciare l’intero mondo dolomitico nel breve volgere di un giorno.
Un gioco che in cambio dei suoi favori mi ha chiesto molto.

A giugno, periodo favorevole per un tentativo grazie alla lunghezza dei giorni ed alla brevità delle notti, alcuni problemi di salute mi hanno obbligato a pazientare e a risalire lentamente la china della forma fisica.

Altre variazioni dal percorso di avvicinamento ideale non mi hanno fatto mettere in discussione le caratteristiche che, nelle mie intenzioni, dovevano dare identità e significato a questa esperienza.

Prima fra tutte l’autosufficienza. Quel bastare a se stessi che spinge al dialogo interiore, al conoscere e gestire le proprie capacità ed i propri limiti.
E poi uno stimolo temporale. Tutto in un solo giorno. Per spingere in profondità questo dialogo, fino a quando la fatica mette a nudo le sensazioni più istintive e l’io parla con la sua voce più vera.

Avevo immaginato che la chiave di volta per realizzare quest’idea fosse un’accorta gestione delle energie al fine di mantenere la necessaria lucidità per affrontare in sicurezza l’orientamento, le mutevoli condizioni meteorologiche, le insidie dei sentieri ed in particolare l’ultima impegnativa discesa lungo la via ferrata che percorre la verticale parete sud della Schiara amata da Dino Buzzati.

Avevo deciso, dopo alcuni sopralluoghi, che qualora l’affaticamento avesse minato la mia sensazione di sicurezza nell’affrontare questo delicato passaggio, avrei scelto di concludere la mia corsa scendendo per la variante meno alpinistica dell’Alta Via che porta al rifugio Bianchet in Val Vescovà.

Negli anni di corse di lunga lena ho imparato a riconoscere la voce della Fatica, quel suo brusio di fondo via via crescente che tende a soverchiare le altre sensazioni, a zittire desiderio e determinazione.
Ignorarla non mi è possibile, così nel tempo ho imparato a dialogare, a darle del tu, a considerarla una compagnia durante il viaggio verso ciò che si desidera.
Ma a volte il dialogo si altera, i toni si inaspriscono e sorprendono con prove sempre nuove.

E’ successo anche questa volta, quando l’imprevisto ha preso le sembianze di un blocco allo stomaco.

Quassù, seduto al sole su un antico fondale marino spinto verso il cielo, il ricordo di quei momenti difficili si riaffaccia alla mente. Così vivido che sembra di riviverlo, di essere ancora lì, su un sentiero, a correre attraverso la notte.

Correndo la quantità di sangue richiamata dalla muscolatura aumenta. Viene così a diminuire l’apporto per i processi digestivi. L’assimilazione dei nutrienti, in prima fila i fondamentali zuccheri, procede incerta sul filo dell’equilibrio.
Dopo otto ore durante le quali sono riuscito a mantenere una buona dinamica alimentare tra consumo e disponibilità, quest’equilibrio sottile si spezza.

Forse il freddo della notte, forse l’affaticamento crescente, sta di fatto che la bocca del mio stomaco si chiude e rifiuta ogni alimento regalandomi una spiacevole sensazione di nausea.

Decido di rimandare l’assunzione dei gel zuccherini nella speranza di lasciare del tempo alle reazioni del mio fisico.

Continuo a correre.

In un paio d’ore infatti l’organismo sembra mandare confortanti segnali di miglioramento ma quando provo ad alimentarmi nuovamente, precipito in una nuova profonda crisi.
La sensazione di nausea è forte e mi impedisce persino di bere.

Continuo a correre ma passo attraverso momenti difficili.
So che il mio viaggio è minato.
Nella mente il pensiero che presto potrei sentire crollare le forze ed abbassarsi la soglia di attenzione necessaria per procedere in questa corsa nella natura.
L’abbandono si affaccia tra le crude possibilità future.

Sto infatti correndo attraverso il buio di una notte senza luna su montagne che mi sono in gran parte sconosciute.
Concentro gli sforzi per riconoscere nel fascio di luce della mia lampada frontale quello che ricordo delle tante mappe e letture consultate.

Ripasso mentalmente anche le varie possibilità individuate come vie di fuga per interrompere questo viaggio e tornare a valle con le mie forze senza sfidare oltremodo la sorte.

Questo giro di pensieri mi conferma che stringo ancora in mano le redini. Mi confortano questa effimera sensazione di controllo e la concreta possibilità di scelta.

Continuo.

Nonostante la rassicurante scorta di liquidi che porto nel mio zaino, non riesco comunque a bere più nulla.

Con il passare delle ore e dei chilometri il disagio sembra stabilizzarsi, rimane ad acuire le fatiche ma non sembra riuscire a mortificare determinazione ed attenzione.

Questa consapevolezza cresce e si rafforza trovando riscontri lungo il cammino man mano che valico nuove montagne e riesco a superare nuove difficoltà.
Come il cantiere forestale incontrato in piena notte poco dopo Passo Duran. Con tronchi di abete abbattuti a precludere il passo e a trasformare il sentiero in un intricato labirinto.
Oppure l’errore con relativo allungamento di percorso, lucidamente recuperato, nei pressi del rifugio Sommariva al Pramperet.

Consapevolezza che mi porta a scegliere di affrontare il percorso completo e che si trasforma in puro piacere nel nutrirsi dell’adrenalina regalata dalla ferrata del Marmol e nello scoprire lucidità e rilassamento là dove mi aspettavo solo tensione e preoccupazione per le energie ormai al lumicino.

Per me, sempre in cerca di suggestioni, l’Alta Via può finire qui, quando la ferrata mi conduce alla base di questa vertigine proprio a pochi metri dal Porton, un grande arco naturale nella parete di roccia che richiama l’immagine di una gigantesca porta.
E’ come se la Montagna, dopo avermi accompagnato lungo le sue creste ed i suoi valichi, mi lasciasse uscire verso il mondo addomesticato. Provato, certo, ma ricco di un nuovo prezioso vissuto.

Ora la fatica riesce a malapena a borbottare la sua litania. Scendo con passo sicuro verso il rifugio VII Alpini e poi lungo l’angusta valle scavata dal torrente Ardo.

Fermo la mia corsa alle Case Bortot, davanti alla stele che sancisce il termine dell’Alta Via e di questo viaggio che ha preso le mosse dalle acque del lago di Braies.
Mi avvio al passo lungo il nastro d’asfalto che oramai annuncia Belluno ripercorrendo con il pensiero tutto ciò che il mio corpo ha voluto dirmi in questa lunga giornata.

Oggi. Quassù. Immerso nuovamente nel fascino di questi luoghi, lascio che questi ricordi acquistino nitidezza e si quietino prendendo un loro ordine.
Nei giorni scorsi, mentre l’onda di fatica abbandonava il mio corpo, i pensieri su quanto avevo vissuto non hanno fermato il loro ribollire.
Penso sia ciò che accade quando si realizza un obiettivo cui si è pensato a lungo in un modo sostanzialmente diverso da come lo si era immaginato.

Nei lunghi mesi di avvicinamento, mentre ci si prepara ad un impegno stimolante proprio perché obbliga ad attingere a piene mani dalle proprie capacità, Curiosità e Timore lavorano a costruire una lunga teoria di aspettative.
Poi si passa attraverso la realtà dell’esperienza e ciò che si trova, talvolta, mostra il volto, fascinoso ed allo stesso tempo inquietante, dell’Imprevisto.
Il passarci attraverso in fondo non è che un modo privilegiato di entrare in contatto con l’Io più vero e procedere nella sua conoscenza profonda.
Considero una fortuna il cercare e il vivere le occasioni che permettono di farlo.

Il taglio della luce serale accentua i contrasti nel disegno delle montagne qui attorno.
Forme, dimensioni e colori ne costituiscono il grande fascino, amplificato dalle storie delle persone che hanno legato il proprio essere a queste rocce.
Scatto alcune fotografie con l’illusione di conservare parte di questo fascino in un fotogramma.
Poi inizio a scendere.

I pensieri corrono ancora, ma alcuni hanno trovato una collocazione più chiara.

Cristiano