L’autobus della linea 321 che da Bressanone-Brixen sale alla Plose affronta deciso le numerose curve del tracciato montano.

Forse a causa dei continui cambi di direzione nella mia mente affiora il ricordo dell’inquietudine provata nei giorni scorsi mentre mi stavo preparando a questo viaggio ed ero alla ricerca di certezze da offrire al mio innato desiderio di controllo sugli eventi.
Più volte mi è sembrato di vestire i panni di un orologiaio figlio di un tempo ormai passato, chino su una moltitudine di piccoli ingranaggi mentre a fatica tenta di sincronizzarne il moto.

L’attesa trasforma la mente in un affollato crocevia dove i pensieri si intrecciano veloci.
L’idea di intraprendere una lunga corsa estenuante tra le vette dolomitiche regala nuova linfa al piacere di scoprire, fuori di me e dentro di me, nuovi panorami.
Il desiderio di farlo in completa autosufficienza regala determinazione ed una lunga teoria di problematiche da prevedere e risolvere con attenzione.
Tra queste, pronte a soffiare scompiglio in questo delicato gioco di equilibri, sono le condizioni meteorologiche, che negli ultimi mesi hanno dato particolare prova della propria natura variabile e scarsamente prevedibile.

All’improvviso il mio sguardo, ora libero dal limite del bosco di abeti, incontra per la prima volta gli Aghi, le Odle.

Quella che vedo attraverso il finestrino dell’autobus non è un’immagine che conquista per l’armonia di forme e colori, tutt’altro.
Le ripide pareti messe in ombra da un sole brillante, prossimo al culmine del suo arco, non mostrano alcun dettaglio né contrasto.

E’ una forma archetipa.
Una silhouette, di un grigio che la distanza fa sconfinare nel blu, il cui disegno si staglia su un chiaro cielo azzurro.

E’ una presenza.
E’ un richiamo.
Fino ad un attimo prima sballottato tra mille pensieri, mi è chiaro all’istante il perché io sia giunto qui.

L’Alta Via numero due attraversa la regione dolomitica dai suoi margini nord occidentali, tracciati dalla valle dell’Isarco, a quelli meridionali, segnati dal lento scorrere del Piave.
Un lungo viaggio tra pallide rocce ideato nel 1966 da Mario Brovelli e percorso integralmente per la prima volta nel 1969. Da allora affascina generazioni di escursionisti che intraprendono questo itinerario, ponte tra le atmosfere tirolesi della millenaria Bressanone Brixen e quelle venete della signorile Feltre.
E’ chiamata anche Alta Via delle Leggende. Deve questo nome al suo attraversare luoghi di fiaba, teatro di saghe pagane e suggestioni religiose, capaci di rapire chi vi mette piede ed emozionare il moderno disincanto.

L’autobus raggiunge il capolinea, i pochi escursionisti saliti con me si preparano alla propria tappa ed anche io, ottenute conferme da un ulteriore sguardo alla mappa, muovo i primi passi di corsa.
Liberatori.

Tranquilli sterrati e sentieri ben tenuti mi indirizzano verso il Passo Rodella, che separa il gruppo della Plose da quello delle Odle di Eores.
L’aria fresca ed il cielo di un azzurro cristallino sembrano preludere ad una radiosa giornata di fine estate, nonostante ciò la mia mente continua a ribadire quanto l’occhio digitale dei satelliti meteorologici le ha rivelato.
Vivo una tregua tra le perturbazioni che da giorni gravitano sulle regioni dolomitiche.
Si tratta di una tregua fragile, ma mi offre un’occasione altrimenti negata dalla certezza delle passate e future giornate di pioggia.

Questa stagione estiva che ora volge al termine passerà agli annali come una delle più piovose degli ultimi cinquant’anni, con temperature sotto la media e piogge pressoché quotidiane.
Ne vivo le concrete conseguenze già nel bosco che mi conduce verso il Sass de Putia: il comodo sentiero in terra battuta si è trasformato in un fangoso acquitrino e ben presto la mia corsa muta in una sorta di danza che mira a far rimanere i piedi asciutti il più a lungo possibile.

Lo stato del sentiero migliora quando inizia a risalire verso la prima vera asperità della giornata.
Superata Forcella de Putia, una lineare e scorrevole traccia a scendere mi porta alla testata della Val di Funes, al cospetto delle celebri Odle.
Risalgo la mobile ghiaia di Forcella dla Roa seguendo con lo sguardo le linee verticali del Piz Duleda.
Da qui il sentiero attraversa il cuore del Parco Naturale Puez-Odle destreggiandosi tra blocchi di dolomia chiarissima e toccando Forcella di Sieles, spettacolare punto di vista sulle Cime di Fermeda.
Scopro passo dopo passo l’esteso altopiano del Puez, seguendo il grande arco che il sentiero disegna a quota duemilaquattrocento metri attorno alla profonda incisione della Vallunga.

Mi sento bene, rispondo prontamente a ciò che questo andare mi chiede.
Tengo vivo ma marginale il pensiero su quante e quali montagne ancora attendono pazienti il mio arrivo.
Seguo l’evoluzione di qualche nuvola che si è condensata attorno ai rilievi maggiori ma, al mio passaggio, il cielo azzurro gioca ancora a specchiarsi nelle acque del lago Crespeina.

Ben presto la situazione muta.
In lontananza una cupa nube fa velocemente scomparire la mole del Pelmo dietro una grigia cortina di pioggia.
Un avviso.

Dove mi trovo la situazione è migliore ma quando mi affaccio sulla Val Chedul, che scende a Selva di Val Gardena, mi accolgono le folate di un vento gelido mentre cadono rapide le prime gocce di pioggia.
Sembra solamente il capriccio di una nuvola in avanscoperta, così indosso velocemente la giacca impermeabile ed attraverso il solco vallivo.

Raggiunto Passo di Cir, lo sguardo spazia libero su Passo Gardena. Ora vedo chiaramente il volto del mio futuro prossimo.
Nere nubi minacciose hanno ormai preso d’assedio il Gruppo del Sella.
Vesto anche i copripantaloni impermeabili, sistemo il cappuccio e scendo tra slanciate torri di roccia, i Pizzes da Cir, mentre la pioggia aumenta la sua intensità.

Le streghe che vanno in carrozza.
Questo ricordo riemerge dalle memorie della mia infanzia mentre un rumore sordo fende l’aria umida.
Con queste parole erano figurati i tuoni più gravi e paurosi nei racconti della mia nonna materna.

Inizio guardingo la ripida risalita della Val Setus, scura gola che si addentra tra imponenti bastioni rocciosi.
Gruppi di escursionisti rientrano frettolosamente a valle, ora l’acqua scende letteralmente a secchiate.
Mi fermo a rifiatare, porto il peso sui bastoni e mi guardo attorno. Sono l’unico che sale, controcorrente.

Ascolto la voce del temporale, cercando di decifrarla.

Continuo.

In breve i canali di scolo lungo la via di salita diventano tanti ruscelli.
Improvvisa giunge la grandine.
La accolgo con benevolenza, sbatte rumorosamente sul mio guscio ma bagna meno della pioggia.
I piccoli grani di ghiaccio sferzano dolorosamente le mie mani mentre risalgo il tratto attrezzato sommitale.
Nello zaino ho due paia di guanti di cui uno impermeabile ma preferisco serbarli asciutti per la notte ed eventuali emergenze, se queste sono le premesse.
Non sono nemmeno ad un terzo della strada che intendo percorrere.

La criticità accelera i pensieri.
Velocemente si affollano nella mente stime sull’evolvere della situazione, valutazioni sui pericoli reali, attenzioni ai piccoli ma fondamentali dettagli come il rimanere caldo ed il più possibile asciutto.
Quest’ultimo pensiero mi strappa un sorriso amaro: tutta quest’acqua ha ormai inzuppato le mie scarpe.
Cerco di tenere lontano il pensiero doloroso su quanto potranno soffrirne alla lunga i piedi e di rimanere concentrato su ciò che sto facendo.

Al Pisciadù la luce cambia, il temporale sembra aver sfogato la propria furia.
Lasciato alle spalle il grazioso lago risalgo il ripido vallone passando sotto le verticali pareti dell’omonima cima.
Incontro qualche nevaio residuo. Bianco ricordo delle copiose nevicate dell’inverno passato sopravvissuto alle poche, davvero poche, occasioni in cui questa stagione ha mostrato con decisione il suo carattere estivo.

Affretto il passo per anticipare le nebbie che spesso in montagna seguono la pioggia.
Nebbie che mi attendono a Forcella Pordoi, condensate nel ripido vallone risalgono veloci verso l’altopiano.
Attraverso la parte più densa della nube seguendo le serpentine disegnate dal sentiero sul ghiaione per poi riconoscere le forme di Passo Pordoi.

La danza dei temporali non ha ancora esaurito la propria energia ed ora, uscito dalle nebbie di metà montagna, guardo perplesso il cielo sopra Arabba.
Nere come la notte, nubi minacciose avanzano inesorabili con un fronte d’acqua che inghiotte il paesaggio.
Mi stanno rimontando, ma nutro la speranza che aggirata la dorsale del Padon questa mi protegga frapponendosi tra me ed il nucleo temporalesco.

In gara, del tutto illusoria, con il fortunale ne scruto le mosse.
Sembrano confermare le mie speranze anche se la nube si espande a gran velocità.
In vista di Baita Fredarola mi raggiungono i primi scrosci e, ormai convinto di aver perso il mio vantaggio, approfitto dello spiovente del rifugio per rivestirmi, pronto al ticchettio insistente sul mio corpo.

Riparto.

Pochi passi sul Viel dal Pan e ciò che avevo intuito, o semplicemente sperato, si avvera.
La nube scarica la propria violenza seguendo la valle adiacente mentre di fronte a me si rivela una visione che difficilmente scorderò.
La Marmolada, regina tra le vette dolomitiche, si mostra nella sua interezza.
Nitida, chiara, bianca di un velo di neve fresca lasciata dalle ultime perturbazioni, risalta sullo sfondo di un cielo nero e minaccioso.
Nebbie dense e bianche risalgono a Passo Fedaia ed avanzano, strisciando lente a coprire la superficie del lago.

La partita meteorologica non è ancora chiusa, e le carte con cui sto giocando non suggeriscono una buona mano.
Mi godo la scorrevolezza di questo celebre sentiero, antica via di commercio della farina, catturato dallo spettacolo dei colori, cupi ma dai forti contrasti che si spengono nell’imbrunire.
Il grigio delle Creste di Serauta.
Il blu del lago.
Il bianco del ghiacciaio.
Il nero delle nubi.

Incontro la strada asfaltata quando la notte è ormai prossima.
Indosso la lampada frontale, adeguo il mio vestiario e mi alimento.
Pochi minuti di corsa in piano lungo il lago poi inizio la discesa a valle.

Vengo inghiottito dalla nebbia.
La visibilità si riduce a pochi metri.
Seguo il nastro d’asfalto, trasformatosi in utile segnavia, che mi guida in discesa verso Malga Ciapela.

Faccio rifornimento di liquidi ad una fontana ed inizio a risalire verso le montagne.

La strada sterrata si inerpica con ripidi tornanti.
Nella mente affiora il ricordo di quando affrontavo queste severe pendenze in senso opposto, alla luce del giorno e con la carica agonistica suggerita da un numero appuntato sul petto.
Corsa forse poco conosciuta, ed oggi non più organizzata, la SaliScendi Marmolada è un piacevole ricordo tra le tante competizioni affrontate.
Una salita impegnativa da Alba di Canazei attraverso la verde Val Contrin fino su ai duemilasettecento metri del Passo Ombretta, al cospetto dell’imponente parete Sud della Marmolada.
Poi una divertentissima discesa, con l’attenzione sempre alta ed il corpo teso a galleggiare su mobili sfasciumi rocciosi, per raggiungere il traguardo di Malga Ciapela a veloci falcate con le energie rimaste.
Già allora, parlo di una decina di anni fa, mi nutrivo, minuscolo corridore con il naso puntato all’insù, del fascino magnetico di questi giganti di roccia chiara che conoscevo così poco.

Accompagnato da questi ricordi seguo il tracciato fino a dove l’AltaVia devia a sinistra e, risalendo la Val Franzedas, punta al valico della Forca Rossa.

Salendo esco dalle fitte nebbie che stazionano nel fondovalle e faccio uno degli incontri che attendevo con desiderio.
Una Luna quasi del tutto piena, grande e luminosa per la sua prossimità al perigeo, dona nuova vita al paesaggio, facendone uscire le forme dalle tenebre.

Un cielo stellato finalmente sereno.
Un bosco di radi larici che profumano di resina.
Una vallata ampia, inondata dalla pallida luce lunare.
Un’aria ferma, che priva della spinta di alcun vento pare addirittura tiepida.
Un’antica mulattiera che risale le pendenze con lena costante lasciando prendere al passo il proprio ritmo.
Questi gli ingredienti di un’ora di puro piacere, un’ora in cui la voce della fatica si fa muta e lascia temporaneo sfogo all’ebbrezza dell’andare.

In prossimità del Passo tutto cambia nuovamente.
Grosse nubi coprono la Luna e spengono il paesaggio.
Aumento la potenza della lampada frontale per indovinare nel suo cono di luce, per me ora nuovo confine del mondo visibile, la traccia da seguire tra i pascoli che scendono verso la conca di Fuciade.

Il sentiero, ingannevole, si divide in mille esili tracciati erosi nei prati. Individuarne la logica ed ottenere conferma dagli scarni segnali indicatori mi obbliga ad un gran lavoro di attenzione.
Il fango argilloso presente sui pascoli gioca a moltiplicare le difficoltà.
Saluto quindi con sollievo Fuciade e le sue facili stradine ghiaiate che mi portano a Passo San Pellegrino.

Uno squarcio nella coltre di nubi mi rivela la nera mole del Col Margherita, prossimo rilievo da superare prima di incontrare la grande scogliera dolomitica delle Pale di San Martino.
Pochi minuti in cui fissare nella mente dei riferimenti, poi nuvole scure tornano a coprire la Luna e mi precipitano nuovamente nel buio profondo della notte.

Individuo il sentiero di salita che, sincero fin dal suo inizio, non mi nasconde la sua ostica natura.
L’esile via attraversa pascoli ormai ridotti ad un grande acquitrino.
Alcune provvidenziali assi di legno aiutano a superare i passaggi dalla natura più melmosa ma nonostante cerchi di affidare il passo alle zolle più solide la fanghiglia vince ben presto la partita.

Affondo fino alla caviglia in questa palude dove nemmeno il morale trova appoggi sicuri.
I miei piedi, già bagnati e gonfi, ricevono un altro schiaffo. Mi chiedo per quanto ancora spingeranno questo mio andare.

La traccia che risale il dorso della montagna mi lascia inquieto.
Il fondo irregolare e scivoloso non permette di prendere un ritmo.
Mi fermo più volte a controllare la mia posizione per zittire l’insistente dubbio di aver seguito un sentiero minore.
I segnavia biancorossi mi confermano di essere sulla direttrice corretta ma non ho gioco facile nell’individuarli sui pascoli che conducono in falsopiano a Forcella Pradazzo.
Da qui il tracciato della strada sterrata che scende a Malga Pradazzo mi porta a Passo Valles chiedendo meno impegno.

Al passo attraverso il nastro d’asfalto ed entro nuovamente nel mondo dei ricordi agonistici.
Qui era posto l’arrivo del Grande Raid delle Pale di San Martino.
Impegnativa, elettrizzante e funambolica corsa, purtroppo oggi non più in calendario, che attraversava in quota l’intero gruppo delle Pale prendendo le mosse dalla baita La Ritonda al Cant del Gal, nell’incantevole Val Canali.
Più volte al nastro di partenza, quasi dieci anni sono trascorsi da allora, ricordo ancora l’eccitazione per una proposta che intuivo sconfinare oltre la mia rassicurante e consolidata esperienza podistica, la curiosità nel misurarmi con le molte variabili aggiunte dal severo ambiente montano, il piacere di addentrarmi nelle mie reazioni istintive per conoscerle a fondo.

Salgo verso forcella Venegia mentre una gelida brezza disperde le nebbie residue per poi liberare completamente le Pale dall’abbraccio delle nubi.
La risalita al Mulaz si rivela più lunga, faticosa ed attrezzata di quanto ricordassi.
Finalmente passo accanto al rifugio Volpi e guadagno Forcella Margherita.

Il colpo d’occhio sulle Pale mi lascia a bocca aperta.
Avevo calcolato di poter giungere qui sul finire della notte, confidando nello spettacolo offerto da una Luna prossima al tramonto che da occidente veste della sua debole luce l’angusto passaggio delle Farangole ed i vicini campanili di roccia.
L’incostante Selene non manca questo appuntamento, regalandomi la viva esperienza di quel senso del sublime tanto ricercato dai romantici di inizio Ottocento.
Attraverso il piccolo nevaio e risalgo l’attrezzatura del Passo delle Farangole godendo di ogni passo, poi scendo nel versante in ombra, seguendo il sentiero che si inoltra nell’alta Val Grande.

L’alba rischiara un cielo terso mentre percorro l’aerea traccia esposta sulla Valle delle Comelle.
In vista del rifugio Pedrotti alla Rosetta i primi raggi di un sole nascente incendiano le vette circostanti.
Le pallide pareti si illuminano passando tutte le gradazioni dal rosso al giallo mentre l’astro diurno avanza conquistando nuove porzioni di questo vasto altopiano.

Accolgo i primi raggi sul mio corpo come una calda carezza che consola dal rigore notturno.
Ma non vivo alcuna rinascita.
Il rilassamento inconscio prodotto dall’aver ormai superato la complessità della notte concede nuovi spazi ad un’arrembante fatica.

Sento la voce della Stanchezza crescere di tono mentre seguo i dissestati saliscendi dell’altopiano.
Cerco di oppormi.
Alterno momenti di efficace e vigile concentrazione ad altri in cui sento la mente allentare la presa.
Ascolto questi cambiamenti interiori con inattesa lucidità.

Nei miei desideri c’è ancora troppa strada da percorrere per lasciarmi spegnere ora.
Tento di mutare registro.
Provo ad aumentare il ritmo della falcata nella lunga e tortuosa discesa verso la Val Canali.
Sentirmi reagire ai momenti di crisi mi spinge in una dinamica positiva tra percezione e determinazione, tra pensiero ed azione.
La mente si risveglia dal torpore della fatica.

Torno unico padrone del mio viaggio.

La veloce discesa si conclude in vista del rifugio Treviso.
Seguo curioso il nuovo sentiero che, dopo un avvio interlocutorio, si impenna e sale ripido a valicare lo stretto passaggio di Forcella dell’Oltro per poi cavalcare, con una timida traccia tra ripidi pendii erbosi, le ultime propaggini meridionali delle Pale.

Ora un Sole brillante, alto sul meridione, illude riscaldando con l’energia dei suoi raggi alcune ore di un’estate vacante.
Scendo di quota seguendo ripide serpentine tra irti pinnacoli rocciosi mentre correnti di un’aria ormai calda risalgono da Passo Cereda.

Lasciato il valico alle mie spalle, i tranquilli sterrati di un tracciato forestale mi agevolano nel fare il punto della situazione.
Sono in continuo movimento da ormai più di ventiquattro ore, più di un giorno intero.
E’ una situazione nuova per me, non l’ho mai vissuta. Non ho mai spinto i miei sforzi così in là nel tempo.

Presto nuovo orecchio alle reazioni del mio corpo.
Sento la Fatica pronunciare una litania crescente, ma questa voce non mi sorprende.
Sento i piedi soffrire degli strapazzi in cui li ho letteralmente immersi, ma questo ostacolo non mi sembra ancora invalicabile.
Sento anche un corpo che, preparato durante una lunga rincorsa, pur provato risponde ancora a tono alle avide richieste di questo andare.

Rincuorato, il pensiero corre al prossimo incontro.
Mi ha incuriosito da quando ne ho letto il nome, seguendo con sguardo sognante l’andamento dell’Alta Via su una carta geografica.
L’Intaiada del Comedon, una lunga cengia che taglia obliquamente la grande parete verticale del Sasso delle Undici.
Un passaggio obbligato, stretto ed attrezzato in più punti, tanto faticoso quanto suggestivo.

Al termine dell’aspra ascesa la vista, oppressa finora dall’imponente parete, gioisce della riconquistata libertà spaziando sulla verdeggiante conca ai piedi del Piz Sagron in cui risalta il rosso acceso del bivacco Feltre.

Il cielo muta aspetto ancora una volta.
Di fronte a me le cime del Gruppo del Cimonega sono già nascoste da dense nubi grigie.
A sud le forme allungate del Lago della Stua scompaiono, celate a tratti da bianchi vapori che condensano risalendo la Val Canzoi.

Dall’aereo Col dei Bechi ho modo di osservare la linea che l’Alta Via disegna sugli scoscesi prati alla base del Sass de Mura.
Il verde domina fino al Pass de Mura, oltre l’occhio incontra solo il grigio di rocce e nubi.
Sono le Vette Feltrine, ultima estesa tratta di questa avventura.

Uno stretto sentiero che lascia pochi spazi ad una corsa sicura mi avvicina al rifugio Boz.

Stanco, ma forte dell’essere giunto fin qui, lascio la mente libera di vagare tra previsioni di tempi e modi per un arrivo ad ogni passo più prossimo.
Mi attende ancora una lunga, panoramica e selvaggia traversata sulle rocce del versante meridionale delle Vette Feltrine.

La traccia verso passo Finestra, ennesimo sentiero trasformato in un’infida trappola fangosa da piogge e calpestio degli animali al pascolo, mortifica presto il mio entusiasmo.

Dal passo un aereo tracciato risale l’acuto dorso del Sasso Scarnia.
Lo percorro mentre inizia nuovamente a piovere, passando su esili cenge e gradinate scolpite nella roccia tra dirupi scoscesi traboccanti di dense nebbie.

Scendo al fianco di nere pareti mentre i bianchi giochi dei vapori mi lasciano intravedere le forme dell’Alpe Scarnia.
Attraverso l’Alpe Ramezza sotto una pioggia ormai battente.
Nubi temporalesche brontolano vicine.

Smette di piovere e le nuvole basse allentano la loro morsa ma ormai il giorno scivola nella sera e la luce ambientale si affievolisce.

La suggestione di entrare nella Piazza del Diavolo illuminata dalla Luna piena che sorge alle mie spalle mi è negata da quelle stesse nubi che prima scaricavano pioggia su queste vette ed ora migrano lente nel cielo ad oriente.
Rompo l’attesa ed attraverso questo luogo dall’aspetto così singolare da aver generato foschi racconti, echi di un intervento oltre le possibilità umane.
Dietro al fascino della leggenda sta la realtà della storia geologica del luogo.
L’antico crollo di un enorme bastione naturale ha lasciato un’impressionante rovina di blocchi di roccia che cingono uno spiazzo erboso dal sorprendente disegno pressoché circolare.

Incontro zoccoli e corna poco più avanti, ormai all’imbrunire.
Camosci. Per nulla intimoriti, scrutano i miei movimenti.

Sto ancora bene.
Accelero il passo per cercare di anticipare la notte al rifugio Dal Piaz.

Mi affaccio a Passo Pietena e scendo velocemente seguendo la mulattiera che attraversa la Busa delle Vette Grandi.
L’oscurità corre più veloce di me.
Mentre risalgo il bordo di questo grande circo glaciale indosso la lampada frontale.
Dal passo delle Vette Grandi mi lancio in un’ultima vertiginosa corsa per scendere a Passo Croce d’Aune.

Il buio della notte rinchiude velocemente la via di discesa in un cerchio di luce bianca.

Più volte durante questa traversata, accompagnato da una chiara Luna o dalle gocce di una pioggia insistente, mi sono tornate alla mente alcune parole di Antoine Blondin, romanziere e giornalista sportivo francese.

L’athlète est un homme qui a décidé de reculer les murs de sa prison.

L’atleta è un uomo che ha deciso di spingere indietro le pareti della propria prigione.

Un atto di eroismo? Un’espressione di forza?
A me piace pensare abbia più a che fare con il piacere e la sua ricerca.
Il piacere profondo di scoprire se stessi.

Certo io continuerò a spingere.

Cristiano